Materiali: Cursi e la pietra leccese

 

Il paesaggio delle campagne tra Cursi e Melpignano è profondamente segnato dalla presenza di cave, molte delle quali esaurite e per questo da tempo abbandonate e alcune ancora brulicanti di attività finalizzata all’estrazione della pietra leccese, da sempre una delle ricchezze di questo territorio. L’economia di Cursi è infatti da molti secoli strettamente connessa alla risorsa pietra, tanto da essere uno dei centri del Salento a caratterizzarsi per un’economia “industriale” prima che agricola. La pietra di Cursi, comunemente detta Pietra leccese, dal punto di vista chimico è una roccia calcarea, del gruppo delle calcareniti risalenti al periodo miocenico (al periodo compreso tra 20 e 12 milioni di anni fa); dal punto di vista della composizione mineralogica è una pietra abbastanza omogenea, con il carbonato di calcio (sotto forma di granuli calcarei, costituiti da microfossili e frammenti di fossili, e di cemento calcitico) come costituente fondamentale. Componenti minoritari sono i granuli di quarzo, di feldspati, di fosfati e minerali argillosi (come la caolinite, la smectite e la clorite), la cui presenza, a seconda delle percentuali, determina sensibili variazioni, anche all’interno della medesima cava, della tonalità di colore, del grado di compattezza, della porosità, della resistenza a compressione, del peso specifico o della granulometria della pietra: caratteristiche perfettamente note agli antichi cavamonti, che conoscevano le varietà della pietra leccese e selezionavano le varietà più adatte ai differenti usi, e oggi scientificamente dimostrabili in seguito a prove di laboratorio. Le modalità di estrazione della pietra leccese sono rimaste sostanzialmente invariate nel corso dei secoli; solo negli ultimi 50 – 60 anni sono profondamente mutate le attrezzature con cui essa avviene e di conseguenza i tempi e i costi connessi.

Nelle cave a cielo aperto, l’operazione preliminare, oggi come in passato, consisteva nell’eliminare la vegetazione e il terreno superficiale dall’area scelta per l’estrazione (la scelta di tali aree in passato avveniva per tentativi o “per pensamento”, basandosi cioè sull’esperienza dei cavamonti più anziani); il terreno asportato veniva venduto ai proprietari di terreni poveri, caratterizzati dalla presenza di estese zone di roccia affiorante, costituendo un’ulteriore fonte di reddito. L’operazione successiva consisteva nell’eliminazione, attraverso operazioni di sbancamento utilizzando cariche di polvere da sparo, del “cappellaccio”, lo strato superficiale, inservibile, del banco roccioso.

Fino a metà del XX secolo l’estrazione dei “pezzotti” avveniva completamente a mano, con l’ausilio di strumenti rudimentali, ad opera dei cavamonti (o “zoccatori”). L’estrazione avveniva per letti di cava, ossia assecondando quelli che erano i naturali piani di sedimentazione della roccia: dopo che il banco era stato liberato dal materiale superficiale inutilizzabile, i cavamonti stendevano una corda, utile a segnare il solco, profondo circa 28 cm, da tracciare con lo strumento in ferro detto “zocco”; usando un ramo d’olivo (detto “due palmi” per la lunghezza pari a circa 50 cm) si segnava l’altezza del blocco, praticando con la mannara (strumento simile ma più grande dello zocco) delle incisioni dette finte; andava quindi staccato il blocco dal piano di cava, inserendo nel solco precedentemente fatto dei cunei di pietra o facendo leva con un palo di ferro.

A partire dagli anni ’50 l’estrazione della pietra avviene invece con l’ausilio delle macchine: dopo aver preparato un piano di scavo ben livellato, si procede incidendolo, ad una profondità di circa 25 cm, con solchi paralleli mediante una sega a disco verticale dentato che si muove su binari, prima in un senso e poi perpendicolarmente, con solchi distanti circa 50 cm. Subito dopo entra in azione la macchina scalzatrice, capace di tagliare la pietra orizzontalmente. I blocchi estratti vengono quindi trasportati altrove per eventuali lavorazioni. Anche le cave di Cursi hanno fatto emergere interessantissime tracce fossili di un lontano passato, oggi raccolte e conservate per la maggior parte nel Museo Paleontologico di Maglie.

 
[immagini estratte da foto di Manuela Tommasi]
 
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